Casta: Ecco quanto si guadagna alla Camera


Una ricerca della United for a fair economy , organizzazione che da Boston si batte contro la
diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza, dice che se nel 1940 un amministratore delegato guadagnava 14 volte un lavoratore medio, oggi la proporzione è salita a 531 contro 1. E ci sono casi dove la distanza tra la base e il vertice di un’azienda è ancora maggiore: come per la Fiat, dove Sergio Marchionne guadagna 1.037 volte il suo dipendente medio. Un’esagerazione, la naturale evoluzione del capitalismo, oppure la giusta distanza? In ogni caso l’esatto opposto di quello che viene fuori sfogliando le tabelle allegate al bilancio della Camera dei deputati, in questi giorni all’esame dall’Aula. La distanza fra base e vertice è minima, la piramide delle busta paga si schiaccia come nemmeno negli Stati Uniti del 1940. E non perché la retribuzione dei vertici sia bassa, ma perché quella della base è molto elevata.
Il vertice di Montecitorio, il segretario generale, ha stipendio e responsabilità analoghe a quelle dell’amministratore delegato di una grande azienda: entra con uno stipendio di poco superiore ai 400 mila euro lordi l’anno, ai quali si aggiunge l’indennità di funzione. Ma è scendendo verso la base nella piramide che cresce vertiginosamente la distanza delle retribuzioni dal mercato. Gli operatori tecnici - categoria nella quale rientrano i centralinisti, gli elettricisti e pure il barbiere di Montecitorio - vengono assunti con uno stipendio che supera di poco i 30 mila euro lordi l’anno. Ma già dopo 10 anni la loro busta paga è quasi raddoppiata, superando quota 50 mila, e a fine carriera può arrivare a 136 mila euro l’anno. Tradotto: un elettricista, un centralinista e un barbiere della Camera, anche se a fine carriera, messi insieme guadagnano quanto il segretario generale, che è pur sempre a capo di 1.500 persone.



Una piramide schiacciata verso l’alto, appunto. E una fotografia che ha davvero poco a che fare con le busta paga del resto dei lavoratori, sia del settore privato che di quello pubblico. Per capire: il reddito medio degli italiani, al netto della nostra evasione fiscale record, si ferma di poco sotto i 20 mila euro lordi l’anno. Quasi la metà di un centralinista della Camera dei deputati ad inizio carriera. E di esempi possibili ce ne sono altri ancora. Gli oltre 400 assistenti parlamentari, cioè i commessi di Montecitorio, guadagnano in media come il direttore di una filiale di banca, eppure in generale non svolgono compiti molto diversi dagli uscieri di altri simili uffici pubblici.
Inoltre, sono numerosissimi: 0,7 per ogni deputato, dopo il taglio voluto dall’attuale segretario generale, mentre dieci anni fa il rapporto era addirittura 1 a 1. La busta paga degli oltre 170 «consiglieri parlamentari» ha in media lo stesso peso di quella di un primario ospedaliero, ma a fine carriera supera i 350 mila euro l’anno. Mentre il primario ha la responsabilità di un reparto, i consiglieri si limitano a svolgere attività di studio e ricerca, o di assistenza giuridico legale e amministrativa. Tutto bene così?

In realtà a complicare i conteggi c’è anche quella selva di indennità che si aggiungono allo stipendio minimo e che riguardano tutti i livelli dell’amministrazione: dai 662 euro netti mensili riservati al segretario generale giù fino ai 108,97 euro, sempre netti e al mese, per gli autisti parcheggiatori, passando per gli 85 riservati a chi lavora in cucina e per i 108 incassati dagli addetti al recapito della corrispondenza.
Ma, pur con la sua piramide schiacciata verso l’alto, la Camera almeno un merito ce l’ha. L’approvazione del bilancio arriva dopo che già quest’estate i dati sugli stipendi dei dipendenti erano stati resi pubblici: un file scaricabile direttamente dal sito internet conferma quelli che per anni erano stati solo sussurri e pettegolezzi. Un’operazione trasparenza, che al Senato non si è ancora vista. Da settimane si dice che gli stessi dati dovrebbero essere pubblicati a breve da Palazzo Madama. Anche quella è una piramide schiacciata, anche quella verso l’alto, probabilmente un po’ più in alto rispetto alla Camera. Ma per il momento bisogna accontentarsi di qualche vecchio dato e di qualche nuovo sussurro.

fonte: corriere.it

Condono fiscale 2002, un buco di oltre 3 miliardi di euro tenuto nascosto per undici anni

A 11 anni dal condono fiscale tombale del 2002, targato Silvio Berlusconi-Giulio Tremonti, si è scoperto che i 'condonati' non hanno pagato tutto il dovuto.
Secondo un documento della Corte dei Conti, di cui ha dato conto il Fatto Quotidiano, al 10 settembre del 2013 mancano all'appello circa 3 miliardi e mezzo di euro.

Secondo la magistratura contabile, il gettito complessivo per sanare definitivamente ogni irregolarità su Irpef, Irpeg, addizionali regionali, Ilor e quant’altro al dicembre 2002 doveva essere complessivamente di 26 miliardi: non si tratta di una previsione, ma del calcolo di quanto dovuto da chi ha aderito al condono ricevendo in cambio benefici come un sostanzioso sconto sulle tasse non pagate e la cancellazione di eventuali reati fiscali. Peccato che poi parecchi abbiano deciso di non pagare tutto, cioè di evadere sull’evaso. D’altronde la legge pareva scritta apposta per farlo: il condono, infatti, si considerava completato dopo aver pagato la prima rata. Di più: a chi sceglieva di rateizzare non si chiedeva alcuna fideiussione sul rimanente debito con l’erario.

Risultato: se uno dopo la prima rata non pagava più, partiva la solita catena per la riscossione coatta tra Agenzia delle Entrate ed Equitalia; il tizio però nel frattempo non poteva essere accusato per i reati eventualmente commessi né gli si potevano applicare le multe cancellate dal condono.

La cosa venne fuori nel novembre 2008: su 26 miliardi ne abbiamo riscossi meno di 21, mise a verbale la Corte dei Conti. Per la precisione mancano all’appello 5,2 miliardi, il 16,2 per cento del totale al netto di sanzioni e interessi. Il governo, che poi era lo stesso che aveva fatto il condono, reagì sgomento: impossibile, inaudito, adesso ci pensiamo noi, gli espropriamo tutto. Siamo alla manovra del 2010, quando la commissione Ue comincia a spingere per l’austerità. Lì Tremonti si gioca il tutto per tutto: entro ottobre del 2011 l’Agenzia delle Entrate deve “effettuare una ricognizione” dei contribuenti che non abbiano ancora provveduto ai pagamenti e avviare nei trenta giorni successivi le procedure di riscossione coatta.

Bene così, problema risolto. O quasi: nell’estate 2011 Tremonti prorogò il termine al 31 dicembre 2012 e poi, tanto per stare tranquilli, Monti decise di fissarlo alla fine del 2013. D’altronde mica è una cosa così facile capire chi ha pagato e chi no: il condono del 2002 in qualche caso – almeno 34 mila contribuenti – fu addirittura anonimo, modello “scudo fiscale”. Alla fine, insomma, in sei anni si è riusciti a recuperare 1,8 miliardi (comprensivi, peraltro, di sanzioni e interessi per i ritardi sulle rate). E i benefici del condono? Sono ancora là.

 Quei tre miliardi e mezzo che mancano all’appello sono tornati d’attualità mentre gli uffici del Tesoro e le commissioni parlamentari consumavano gli occhi per far tornare i conti del Def: conti, sia detto per inciso, che per il 2013 tornano solo perché finora agli atti risulta che dovremo pagare la rata dell’Imu di dicembre per complessivi 2,4 miliardi di euro. In quei giorni, come detto, Francesco Boccia chiese alla Corte dei Conti notizie sull’annosa vicenda del condono tombale del 2002 scoprendo quei 3,4 miliardi dimenticati: “Adesso le proroghe sono finite – spiega al Fatto Quotidiano il deputato del Pd – e dobbiamo fare di tutto, già nella legge di stabilità, per recuperare i soldi: la prima cosa è prevedere che chi non è in regola coi pagamenti perde subito i benefici del condono, poi studieremo se applicare penalizzazioni accessorie”.

In sostanza, chi non ha pagato le rate dopo la prima potrebbe non solo trovarsi a dover sborsare tutte le tasse dovute senza alcuno sconto (anche cinque volte più di quanto pattuito a suo tempo), ma pure finire sotto la lente della magistratura per eventuali reati fiscali. Si vedrà, ma va detto che i precedenti non lasciano ben sperare: come ha rivelato l’Agenzia delle Entrate nel 2005, in sessant’anni di condoni solo quelli del 1989 e del 1992 hanno rispettato le previsioni di gettito.
infiltrato.it

Il carcere-paradiso in Venezuela

 Dal Venezuela arriva un esempio di come vivere in carcere possa essere reso un po' più piacevole: è il carcere di San Antonio, in Venezuela, dove prigionieri cucinano i propri pasti, guardano la TV, ballano il reggeton e fanno il bagno in piscina. L'unica cosa che non possono fare, insomma, è uscire.


Per questo la maggior parte dei prigionieri è felice di stare lì. A San Antonio, infatti, si può godere di molti privilegi, compreso avere un lavoro e guadagnare soldi veri. Alcuni sono barbieri, alcuni farmacisti. C'è anche un ragazzo che usando photoshop vende foto di detenuti appoggiati a un Hummer. I più pigri se ne stanno nelle celle climatizzate, in compagnia di mogli e fidanzate, libere di andare e venire a loro piacimento.
Anche i figli dei detenuti possono utilizzare il carcere come un parco giochi e trascorrere la giornata nuotando in una delle quattro piscine. Nei fine settimana, si apre a per tutti i visitatori che vogliono ballare nei suoi club. Insomma, è veramente un carcere diverso da qualsiasi altro.
Ma c'è un pesante rovescio della medaglia. Ogni privilegio concesso a San Antonio si deve a Rodrigues Teófilo, noto anche come "El Conejo", il coniglio, a causa della sua dipendenza dalle carote. Rodrigues, un trafficante di droga condannato, è il leader dei detenuti. Il suo marchio di fabbrica, il logo di Playboy, appare sui muri della prigione ed è tatuato sul corpo di alcuni dei detenuti come segno di fedeltà e lealtà verso di lui. Si è affermato come capo della comunità proprio attraverso il miglioramento delle condizioni di vita. Lo scopo, ovviamente, è avere il controllo e il comando, sostituendosi allo Stato.
Insieme con le sue guardie del corpo, El Conejo impone alcune regole di condotta, a sua discrezione, e coloro che disobbediscono vengono severamente puniti, anche perché le armi sono una comuni all'interno dei cancelli della prigione. La maggior parte dei 2.000 detenuti ha paura di parlarne. E immaginarne il perché svuota di ogni fascino la prigione paradisiaca, governata dagli spiriti maligni della criminalità organizzata.

greenme.it

Autoblu, la casta spende oltre un miliardo

I politici italiani non sembrano voler seguire l’esempio di Papa Francesco. Il quale, in epoca di rinnovamento della Chiesa, ha abbandonato la fiammante e comoda papamobile per una più semplice Ford Focus.
Rappresentanti di Stato e Parastato continuano a scorrazzare in autoblu incuranti di spending review e delle campagne giornalistiche anticasta.
Lo ha confermato il ministro per la Pubblica amministrazione, Giampiero D’Alia, che ha dovuto ammettere anche quanto sia complessa e improba la battaglia contro questo tipo di sprechi.
CENSITO SOLO IL 70% DEL PARCO AUTO.
 «Ci troviamo», ha spiegato il numero uno di Palazzo Vidoni, «ad aver censito soltanto il 70% del parco auto di rappresentanza e di servizio delle pubbliche amministrazioni. Questo perché non ci vengono forniti i dati in maniera compiuta da parecchi Enti locali e Regioni».
Ma più dei boicottaggi, sono i numeri a dare la misura dello stato dell’arte.

UN CONTO DA CIRCA 1 MILIARDO
Sempre il ministro centrista ha dichiarato che «dal dato grezzo in nostro possesso, il costo delle auto di servizio e delle auto blu supera il miliardo di euro. È chiaro quindi che ci sono margini di intervento per una riduzione della spesa». Per la cronaca, un anno fa il costo complessivo per questa voce di spesa era di 1,050 miliardi.
SUL LIBRO PAGA, CONSULENZE PER 1,3 MILIARDI.
Numeri non meno sconfortanti arrivano dal versante delle consulenze. Sempre il ministro D’Alia a Palazzo Madama ha fatto sapere: «Dai dati in nostro possesso il costo delle consulenze nelle pubbliche amministrazioni italiane è di oltre 1,3 miliardi di euro. Anche questo è un dato grezzo, che fa riferimento all’acquisizione di elementi e di dati provenienti da circa il 70% delle amministrazioni».
Gli ultimi numeri a disposizione di Palazzo Vidoni, ma che risalgono al 2001, dicono che «gli incarichi di collaborazione e consulenza sono stati 277.085 per un totale di euro 1.292.822.526,18».
NEL 2012 SONO STATI RISPARMIATI SOLO 100 MILIONI.
Non hanno portato grandi risultati le norme approvate finora per tagliare le auto blu o consulenze. Renato Brunetta, sulla poltrona di D’Alia ai tempi dell’ultimo governo Berlusconi, era convinto di recuperare in un biennio almeno 900 milioni di euro. Per questo aveva concesso l’uso delle vetture di rappresentanza soltanto alle figure apicali della pubblica amministrazione, dimezzato le assegnazioni e fissato multe per i trasgressori. Non meno duro il suo successore, Filippo Patroni Griffi.

Nell’ultima legge di Stabilità aveva previsto il divieto alle amministrazioni pubbliche di acquistare auto nuove negli anni 2013 e 2014. Qualche mese fa il Formez, l’ente deputato a fare il monitoraggio delle auto blu, comunicò che il parco vetture di Stato, Parastato ed enti locali era composto da 56.886 vetture. Lo scorso anno la spesa di gestione complessiva era stata, come detto, di 1.050 miliardi di euro, con un risparmio di appena cento milioni rispetto al 2011. Non sono da escludere nuove strette. Tra gli emendamenti di maggioranza al pacchetto sulla Pubblica amministrazione attualmente in Senato, uno prevede un’ulteriore stretta sulle spese per le vetture di rappresentanza e consulenze. Rispetto all’anno precedente, nel 2014 il taglio passerebbe rispettivamente dall’80% già previsto al 60% e dal 90% al 70%.

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